Ecco cosa accade nelle cliniche dove l'aborto è routine

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Tommaso de Torquemada
00mercoledì 1 giugno 2016 19:48
di Andrea Zambrano 01-06-2016


Andata e ritorno dal girone infernale dell’aborto per denunciare che cosa avviene dentro le cliniche del Planned Parenthood dove la parola bambino non si può pronunciare e dove le infermiere non si devono guardare negli occhi. E’ il destino che ha portato una ragazza americana a praticare 3 aborti in un anno e mezzo e a diventare una infermiera di una delle cliniche abortive associate alla International Planned Parenthood Federation. Oggi però Patricia Sandoval è una donna rinata, madre di tre figli che percorre in lungo e in largo la Spagna, il Messico e gli Stati Uniti per raccontare la sua storia di resurrezione.

In Italia non è conosciuta, ma la sua testimonianza, riportata integralmente dal sito www.libertaepersona.org aprirebbe gli occhi di tanti che anche nel nostro paese sono ancora convinti che in fondo “si tratta solo di un grumo di cellule”. Il sito ha trascritto e pubblicato uno dei suoi recenti interventi in Spagna, in occasione dell'ottava Assemblea dei volontari del diritto a vivere che si è svolta in aprile in Spagna. Un racconto crudo e vero, al quale non siamo abituati, ma che apre uno squarcio su che cosa accade dentro le cliniche dove l’aborto è trattato al pari di un’estrazione dentaria. Cliniche che con la distruzione del feto fanno milioni a palate e che godono anche di fondi governativi.

La storia di Patricia inizia negli Stati Uniti dove la giovane vive spensierata con i genitori, ma con la loro separazione tutto si incrina. Da adolescente sperimenta i corsi di eduzione sessuale nella sua scuola: “Il primo giorno del corso ci portano 30 banane e 30 preservativi, ci parlarono in termini neutri o positivi della masturbazione e della pornografia”. Alla fine della scuola Patricia era un perfetto prodotto dell’indottrinamento moderno: “Questo era il concetto che mi ero fatta della sessualità. Valori totalmente negativi. Un vero inganno”.

La fede si sgretola, smette di andare a messa e inizia una nuova vita in Messico con il padre. A 19 anni il primo fidanzato e la prima gravidanza. Nonostante lui volesse tenere il bambino Patricia viene convinta da alcune amiche della necessità di abortire: “Mi dissero che era solo un grumo di cellule”. Forte di questa menzogna Patricia abortisce, ma comunica al fidanzato di aver perso il bambino naturalmente. Farà così altre due volte, fino a quando, in una miscellanea di sensi di colpa, egoismi e bugie, si trasferisce in California, a Sacramento, dove rispondendo ad un annuncio di lavoro della Planned Parenthood entra nella clinica degli aborti come infermiera e traduttrice delle tante latine che dal Messico andavano in America ad abortire.

Ecco come avvenne il reclutamento il primo giorno di lavoro: «D’accordo, Patricia, oggi faremo 50 visite. Tu preparerai queste ragazze all’aborto per il mercoledì e il venerdì. E se tu vedi una ragazza che ha molta paura di abortire, tu dovrai fare tutto ciò che è in tuo potere perché non manchi all’appuntamento. Le dirai che tu stessa hai fatto 3 aborti, che stai bene e che anche lei starà bene. Non potrai portare in clinica nessuna fotografia della tua famiglia, dei tuoi cugini, dei tuoi nipoti, perché se una donna entra e vede la fotografia di una famiglia può restare traumatizzata, e se ne va.

E se fugge, la colpa è tua. In questa clinica non si usa la parola bambino, mamma o papà. Tu parlerai sempre di grumo di cellule. Nemmeno userai la parola “feto”. La cosa più importante in questa clinica è quella di non lasciare mai che una donna guardi lo schermo dell’ecografo. Anche se lo esige e piange, tu dirai che c’è già una infermiera che guarda lo schermo e che lo schermo deve essere rivolto verso di lei. Né tu, né gli altri addetti possono guardare lo schermo! Siamo intesi?”.

Lei esegue alla lettera: “Certo che non soffrirà – rispondeva alle pazienti – è soltanto un grumo di cellule”. Un giorno però, dopo l’ennesimo aborto di routine Patricia sta procedendo all’eliminazione del feto. “La mia collega prese una pinza e la mosse al suo interno cercando qualcosa. All’improvviso vidi comparire un braccio con la manina distesa. Mi disse che era la parte numero uno. Era necessario infatti trovare 5 parti del feto per dire al medico che l’aborto aveva avuto successo”.

I suoi occhi si aprono: “In quel momento per me fu come se Dio avesse fermato il tempo, così che io potessi vedere tutti i dettagli. Così ho potuto vedere la forma delle dita, le linee del palmo della mano e, all’estremità delle dita, le unghie formate. E tutto ciò viene gettato nella spazzatura. Vidi il piede con all’estremità delle dita la traccia delle piccole unghie. E quello che mi colpì fu la pelle che cresceva sul piede”. Poi, in un macabro crescendo rossiniano individuò perfettamente i capelli, gli occhi, il naso, le orecchie. “Però quello che mi addolorò di più fu il vedere la sua boccuccia aperta, perché questo bebè gridò per la sua vita minacciata, e nessuno lo poteva sentire perché non aveva voce”.

La donna inizia a piangere tutte le sere quando rincasa, pensa ai suoi bambini abortiti e decide di lasciare il lavoro. E’ senza casa, senza fidanzato, senza affetti: si butta nel vortice della cocaina e per tre anni vive da sbandata. In quell’abisso di disperazione Patricia alza gli occhi al cielo e inizia a parlare con Dio. «Non ho nulla! Tu sei l’unico che ho in questo momento! Non ho droga, non ho famiglia, non ho amici, non ho nulla! Ma io voglio ringraziarti perché mi hai dato una fanciullezza tanto felice, con i migliori genitori del mondo! Io ho distrutto la mia vita e per questo ti chiedo perdono!».

Da quel momento Patricia inizia la sua risalita che la porterà a riabbracciare la madre, che nel frattempo, dopo un tortuoso percorso fatto di New Age e spiritualità confuse era approdata al cattolicesimo. “Mi abbracciò e mi disse: «Patrizia sono tre anni che prego per te. Sono tornata alla fede cattolica. Sono rimasta per ore in ginocchio davanti al Santissimo chiedendo che tu potessi tornare a casa!»”.

Insieme a lei, Patricia inizia un percorso di rinascita spirituale chiamato La vigna di Rachele, rivolto alle donne che hanno abortito, per curare le loro ferite. Oggi Patricia è una strenua volontaria pro life che porta nel continente americano la sua storia di dolore e di misericordia: “Molte delle persone che hanno abortito, per riuscire perdonarsi, debbono sentire il perdono dei loro figli non nati. E loro le perdonano. In quel momento, quando vidi il loro amore e visto che ero stata una cattiva madre, volevo recuperare ed essere la miglior madre che posso essere in questo momento. Da quel momento feci la promessa di difendere la vita con tutto il mio cuore e tutto il mio essere, per riparare tutti i danni che ho fatto”.
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L'aborto è un puro omicidio
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