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COSA SI NASCONDE DIETRO LA GUERRA COMMERCIALE FRA USA E UNIONE EUROPEA. ECCO COME C’ENTRA CON IL NUOVO GOVERNO ITALIANO

Ultimo Aggiornamento: 05/06/2018 22:19
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05/06/2018 22:19
 
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di Antonio Socci 04-Giugno 2018


La “guerra economica” scoppiata fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea è molto di più di una controversia dovuta all’inaudito surplus commerciale tedesco. Molto più di una questione di dazi: è il ritorno della Storia.

Infatti la Germania, che di certo è un grande Paese, ora è tornata ad essere anche un grande problema. Non solo per l’Europa, ma pure per gli Stati Uniti. E Trump ha tutta l’intenzione di vincere il braccio di ferro con la Merkel, ridimensionando i disegni imperiali tedeschi (già la Brexit è andata in questa direzione: la Gran Bretagna è storicamente ostile agli imperi continentali).

La Germania perderà il confronto con gli Usa e potrebbe essere un duro colpo per tutta l’attuale Unione Europea di Maastricht (da non confondere con la Comunità europea originaria).

Le leggi della geopolitica sono fatali e le nazioni che tendono alla supremazia continentale, come la Germania, dovrebbero imparare dagli errori del passato.

Era questo l’ammonimento che Paolo Savona nel 2012 aveva intelligentemente espresso nel libro “Lettera agli amici tedeschi e italiani”, uno scritto che – rilanciato nelle settimane scorse – ha suscitato le ire dell’establishment germanico ed è costato a Savona il posto di ministro del Tesoro.

Savona voleva “sollecitare” gli amici tedeschi per avere

“un vostro maggiore impegno nell’evitare che l’Europa si infili in una nuova tragedia – quella del ritorno alla povertà di alcuni popoli con gli odi e i conflitti che seguirebbero – operando in modo tale da garantire non solo una continuazione della crescita per il vostro paese, ma anche per tutti gli altri, in uno sforzo cooperativo”.

E’ evidente infatti che l’euro così come è stato realizzato e i Trattati di Maastricht hanno avvantaggiato enormemente la Germania e hanno svantaggiato molti altri (in primis l’Italia).

Savona spiegava che invece dell’armonica crescita comune

“ora prevale la competizione conflittuale. Ma ancora più grave è il riproporsi, per fortuna in forme non militari, ma più subdole, della competizione conflittuale che ha causato le drammatiche vicende della guerra (…). Dai vostri recenti comportamenti collettivi”, scrive ai tedeschi, “viene il sospetto che stiate scivolando nuovamente sul piano economico nella direzione proposta dal Piano Funk (dal nome dell’allora ministro delle Finanze tedesco, ndr) del 1936. La politica economica che voi suggerite getta le basi per una disgregazione del sogno europeo di pace e di un comune progresso civile. Il Piano Funk prevedeva che la Germania divenisse il ‘paese d’ ordine d’Europa’ ed è quello che ora proponete; che le monete nazionali ‘confluissero nell’ area del marco’ ed è ciò che desiderate e, in parte, avete ottenuto; che lo sviluppo industriale fosse di vostra esclusiva pertinenza, solo affiancati dall’ alleato ‘storico’ del vostro paese, la Francia, una soluzione che il mercato comune europeo e la moneta unica sta causando”.

Queste preveggenti parole di Savona, tornate d’attualità nei giorni della formazione del governo, sono preziose anche per capire la concomitante iniziativa di Trump che, proprio nelle stesse ore, ha stabilito dazi commerciali per acciaio e alluminio provenienti dalla Ue, mirando così a colpire soprattutto la Germania (con cui gli Usa hanno 75 miliardi di deficit commerciale).

L’eccessivo surplus commerciale tedesco – che supera perfino quello cinese e che da anni trasgredisce le regole europee – provoca enormi squilibri, sia a scapito degli altri paesi europei sia a scapito degli Stati Uniti.

Ma finora la UE si è ben guardata dal “punire” la Germania, come invece minaccia sempre di fare con l’Italia se osasse trasgredire il parametro del deficit. E gli Stati Uniti, con l’Amministrazione Obama, si sono limitati alle critiche e alle proteste verbali verso Berlino.

Invece Trump è passato alla guerra commerciale, come aveva promesso in campagna elettorale. Naturalmente i dazi statunitensi ora danneggeranno anche (in parte minore) l’Italia che – per l’incapacità dei suoi governi – ha pagato finora l’arroganza imperiale tedesca e paga adesso la ritorsione americana verso l’UE.

Tuttavia il ridimensionamento della Germania e il conflitto euroamericano potrebbe destabilizzare “questa” Unione Europea e l’euro nella direzione auspicata dal nuovo governo Lega-M5S.

Perciò l’Italia avrebbe tutto l’interesse a stabilire una forte alleanza politica e commerciale con gli Stati Uniti di Trump. E il nuovo esecutivo Conte ha l’ottica giusta per farlo non essendo succube della Merkel come i precedenti governi.

La “guerra commerciale” appena scoppiata fa anche capire un’altra cosa preziosa.

Negli ultimi 25 anni l’ideologia economica iperliberista – che Tremonti chiama “mercatismo” – ha assunto i tratti di un dogma teologico indiscutibile ed è alla base dei Trattati di Maastricht.

Sembra che l’assoluto dominio dei mercati sia il Bene metafisico e comporti l’automatico progresso dell’umanità. Mentre ciò che (specie per l’esistenza degli Stati, dei governi e della democrazia) impedisce il loro totale arbitrio pare rappresentare il Male metafisico e il regresso nella miseria più oscura.

Adesso scopriamo che invece non è così e che le categorie liberismo/protezionismo sono solo due possibili opzioni che gli Stati adottano a seconda dei momenti storici, perseguendo anzitutto il loro interesse nazionale. E lo si vede soprattutto nella storia americana.

Paul Bairoch, nel libro “Economia e storia mondiale”, scrive: “nelle regioni che vennero gradualmente a comporre il mondo sviluppato, il protezionismo fu la politica commerciale dominante. Tale fu soprattutto il caso degli Stati Uniti che, lungi dall’essere un paese liberista come molti pensano, può essere definito ‘la culla e il bastione del protezionismo’ ”.

Nessuno può negare che questa scelta protezionista abbia portato la massima prosperità agli Usa. Del resto che il mercatismo non sia automaticamente sinonimo di prosperità, ma anzi possa portare nel baratro è dimostrato per l’Europa da questi decenni (e specie dalla crisi finanziaria 2007-2008).

Lo avevano già capito nell’Ottocento. Bairoch citando Disraeli, nello storico dibattito del 1846 sul sistema di libero scambio e il protezionismo, evoca l’esempio dell’Impero ottomano dove “con un’applicazione totale e prolungata nel tempo del sistema della concorrenza illimitata” si è distrutto uno dei sistemi manifatturieri “più belli del mondo”.

La lezione che dunque ci arriva da Trump è questa. Dopo essere stati ammorbati per anni dal dogma mercatista, secondo cui occorreva inchinarsi al totale arbitrio dei mercati e del libero scambio, scopriamo che – se non vogliamo soccombere – il primato spetta agli Stati, cioè ai popoli, non ai mercati. E la bussola delle politiche pubbliche deve essere la difesa dell’interesse nazionale.

Anche questo è un tema a cui il nuovo governo dovrebbe essere sensibile. I governi che si sono succeduti finora a Roma lo avevano dimenticato.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 4 giugno 2018
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